Leonardo Sciascia, L'affaire Moro (1978), Milano, Adelphi, 2007, pp. 196.
Il prossimo 16 marzo saranno 30 anni dalla strage di Via Fani. Ci aspetta un'ondata di retorica e di ipocrisia. Il rapimento dell'allora presidente della Democrazia Cristiana, con l'uccisione di tutti i membri della scorta, segnò il punto più alto dell'attacco al cuore dello Stato da parte delle BR e allo stesso tempo l'inizio del loro tracollo.
Sciascia legge le lettere che Aldo Moro scrisse nella "prigione del popolo" come se fosse un commissario dei suoi romanzi - questa figura alla quale la letteratura contemporanea ha affidato spesso il compito di tessere assieme i fili di un reale sfaldato e di una società dalle trame complesse; il compito di continuare a venerare quel principio di causalità che sta alla base del logos e della metafisica occidentali. Malgré Kafka. E se l'interpretazione è una forma della volontà di potenza, cioè della volontà di aver ragione, lo scrittore siciliano di ragione ne ha da vendere.
Che alle BR sia stato lasciato, durante tutti gli anni Settanta, un controllato margine di azione da parte delle forze che avrebbero dovuto combatterle è una tesi fondata, vista l'opacità delle istituzioni italiane e dei loro rami più o meno segreti o deviati. Un'occhiata al libro di Giorgio Galli, Il partito armato. Gli "anni di piombo" in Italia, 1968-1986 (Milano, Kaos Edizioni, 1993) aiuta il sano esercizio del dubbio. A questo proposito scrive Sciascia: "[…] stando alle statistiche diffuse dal ministero degli Interni, relative alle operazioni condotte dalla polizia nel periodo che va dal rapimento di Moro al ritrovamento del cadavere, le Brigate rosse […] sono sfuggite al calcolo delle probabilità. Il che è verosimile, ma non può essere vero e reale" (p. 30). Sciascia vuol dire che le forze del disordine, durante il sequestro, si mossero rigorosamente secondo il precetto del facite ammuina.
Aldo Moro fu letteralmente sacrificato dai membri del suo partito - e da quelli di tutto l'arco costituzionale, con l'eccezione del PSI di Craxi - in nome di un'insensata "strategia della fermezza" e di un improvviso "senso dello Stato" che i democristiani di allora si inventarono di sana pianta, semplicemente perché non ce l'avevano mai avuto (p. 32).
Il presidente si considerò un "grande statista" finché non cominciarono ad arrivare le lettere ai vari Zaccagnini, Cossiga, Fanfani, Andreotti, Piccoli; finché non cominciò ad additare responsabilità: allora diventò improvvisamente un uomo incapace di intendere e di volere, plagiato e costretto a scrivere ciò che non avrebbe mai scritto. Ma non è così: Moro non scrive sotto costrizione (p. 109). E con il passare dei giorni vede sfumare ogni speranza sia di un azione di forza che lo liberi, sia di una mediazione. I suoi appelli si fanno via via amareggiati, stupefatti, disperati, indignati di fronte alla sordità e al cinismo dei notabili democristiani: "Io lo dico chiaro; per parte mia non assolverò e giustificherò nessuno" (p. 92); "Il mio sangue ricadrebbe su di voi" (p. 94); "Muoio, se così deciderà il mio partito..." (p. 113). Alla fine, Moro è semplicemente un uomo lasciato solo.
Dopo la lettera del 29 aprile, la famiglia Moro tentò invano di smuovere il colpevole immobilismo della DC con parole come macigni: "La famiglia ritiene che l'atteggiamento della DC sia del tutto insufficiente a salvare la vita di Aldo Moro. […] sappiano gli onorevoli Zaccagnini, Piccoli, Bartolomei, Galloni e Gaspari che con il loro comportamento di immobilità e di rifiuto di ogni iniziativa proveniente da diverse parti ratificano la condanna a morte di Aldo Moro. […] Egli non riesce [ad esprimere direttamente la sua volontà] senza essere dichiarato sostanzialmente pazzo dalla quasi totalità del mondo politico italiano e in prima linea dalla DC e da gruppi ad essa paralleli di sedicenti "amici" e "conoscenti" […]." (p. 119). Strano contrappasso: prima "sedicenti" erano le BR; ora lo sono i democristiani.
Visto che li conosceva bene, chissà come si sarà sentito Moro sapendo che la sua vita era nelle mani di un Francesco Cossiga o di un Giulio Andreotti. Forse un po' a disagio...
Il prossimo 16 marzo saranno 30 anni dalla strage di Via Fani. Ci aspetta un'ondata di retorica e di ipocrisia. Il rapimento dell'allora presidente della Democrazia Cristiana, con l'uccisione di tutti i membri della scorta, segnò il punto più alto dell'attacco al cuore dello Stato da parte delle BR e allo stesso tempo l'inizio del loro tracollo.
Sciascia legge le lettere che Aldo Moro scrisse nella "prigione del popolo" come se fosse un commissario dei suoi romanzi - questa figura alla quale la letteratura contemporanea ha affidato spesso il compito di tessere assieme i fili di un reale sfaldato e di una società dalle trame complesse; il compito di continuare a venerare quel principio di causalità che sta alla base del logos e della metafisica occidentali. Malgré Kafka. E se l'interpretazione è una forma della volontà di potenza, cioè della volontà di aver ragione, lo scrittore siciliano di ragione ne ha da vendere.
Che alle BR sia stato lasciato, durante tutti gli anni Settanta, un controllato margine di azione da parte delle forze che avrebbero dovuto combatterle è una tesi fondata, vista l'opacità delle istituzioni italiane e dei loro rami più o meno segreti o deviati. Un'occhiata al libro di Giorgio Galli, Il partito armato. Gli "anni di piombo" in Italia, 1968-1986 (Milano, Kaos Edizioni, 1993) aiuta il sano esercizio del dubbio. A questo proposito scrive Sciascia: "[…] stando alle statistiche diffuse dal ministero degli Interni, relative alle operazioni condotte dalla polizia nel periodo che va dal rapimento di Moro al ritrovamento del cadavere, le Brigate rosse […] sono sfuggite al calcolo delle probabilità. Il che è verosimile, ma non può essere vero e reale" (p. 30). Sciascia vuol dire che le forze del disordine, durante il sequestro, si mossero rigorosamente secondo il precetto del facite ammuina.
Aldo Moro fu letteralmente sacrificato dai membri del suo partito - e da quelli di tutto l'arco costituzionale, con l'eccezione del PSI di Craxi - in nome di un'insensata "strategia della fermezza" e di un improvviso "senso dello Stato" che i democristiani di allora si inventarono di sana pianta, semplicemente perché non ce l'avevano mai avuto (p. 32).
Il presidente si considerò un "grande statista" finché non cominciarono ad arrivare le lettere ai vari Zaccagnini, Cossiga, Fanfani, Andreotti, Piccoli; finché non cominciò ad additare responsabilità: allora diventò improvvisamente un uomo incapace di intendere e di volere, plagiato e costretto a scrivere ciò che non avrebbe mai scritto. Ma non è così: Moro non scrive sotto costrizione (p. 109). E con il passare dei giorni vede sfumare ogni speranza sia di un azione di forza che lo liberi, sia di una mediazione. I suoi appelli si fanno via via amareggiati, stupefatti, disperati, indignati di fronte alla sordità e al cinismo dei notabili democristiani: "Io lo dico chiaro; per parte mia non assolverò e giustificherò nessuno" (p. 92); "Il mio sangue ricadrebbe su di voi" (p. 94); "Muoio, se così deciderà il mio partito..." (p. 113). Alla fine, Moro è semplicemente un uomo lasciato solo.
Dopo la lettera del 29 aprile, la famiglia Moro tentò invano di smuovere il colpevole immobilismo della DC con parole come macigni: "La famiglia ritiene che l'atteggiamento della DC sia del tutto insufficiente a salvare la vita di Aldo Moro. […] sappiano gli onorevoli Zaccagnini, Piccoli, Bartolomei, Galloni e Gaspari che con il loro comportamento di immobilità e di rifiuto di ogni iniziativa proveniente da diverse parti ratificano la condanna a morte di Aldo Moro. […] Egli non riesce [ad esprimere direttamente la sua volontà] senza essere dichiarato sostanzialmente pazzo dalla quasi totalità del mondo politico italiano e in prima linea dalla DC e da gruppi ad essa paralleli di sedicenti "amici" e "conoscenti" […]." (p. 119). Strano contrappasso: prima "sedicenti" erano le BR; ora lo sono i democristiani.
Visto che li conosceva bene, chissà come si sarà sentito Moro sapendo che la sua vita era nelle mani di un Francesco Cossiga o di un Giulio Andreotti. Forse un po' a disagio...
2 commenti:
"Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo".
"Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo" mi sa che è proprio il titolo dello "speciale" che trasmetteranno stasera. E che non vedrò. Non potrei reggerlo.
ciao anonimo
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